mercoledì 30 settembre 2015

Giacometti celebra l'eroe contemporaneo

La scultura è la forma del significato. Non ha altra funzione che ricreare in se la grandezza, il tempo, racconti di memorabili vittorie o prodi sconfitte. E’ propria dello scultore la peculiarità di riuscire, più del pittore, ad imprimere nell’opera una loquacità solenne e una travolgente funzione celebrativa di ciò che resta quando tutto è finito. Dalle antiche statuine di donna con il ventre gonfio, simbolo di fertilità e ricchezza, alla bellezza della Venere Callipigia, i bronzi di Riace, fino alle opere celebrative dei fasti di Roma, come colonne e statue di imperatori. Insomma la scultura ha sempre avuto lo scopo di duplicare la realtà affinché l’opera rimanga sempre contemporanea, esplicita nei suoi concetti. Sempre orientata a esibire la forma di un’ epoca in perfetta commistione con il sentimento dell’artista.
Loquacità e funzionalità artistica li ritroviamo nelle opere di Alberto Giacometti che ha reinventato e rappresentato l’Uomo del ‘900. E lo fa con le uniche forme possibili, non più muscoloso e impavido condottiero ma umbratile, sottile e fragile, l’aspetto disincantato di un anti-eroe. Bisogna comunque sapere che Giacometti ha abbracciato molte correnti artistiche a lui coeve, dal cubismo alle arti primitive al surrealismo, ed è proprio nel surrealismo (lontano da quello che esigeva Breton) scopre che nulla è più surreale dell’umana condizione dello stare al mondo. L’antieroe Giacomettiano è l’inetto che troviamo nelle pagine di Svevo quando nel 1923 pubblicò “La Coscienza di Zeno”. Zeno Cosini unico uomo a sopravvivere, grazie alla malattia esistenziale. Disadattato per la sua epoca ma eroe vincente per Svevo. Così le statue di Giacometti, lineari, ridotte all’osso, sono forme dell’ antica scultura figurativa che non perde memoria né coscienza, che non si estingue ma semplicemente muta, diventa contemporanea perché può ancora celebre l’ uomo.
L’uomo contemporaneo, del ventesimo secolo, la sua apparenza fatta di distanze, di insicurezza e fragilità, i nuovi valori di oggi, nuovi attributi di grandezza. Ecco questi sono i nuovi eroi, a cui Giacometti dona forma fisica, non hanno nulla da invidiare alle sculture di Fidia, se non la nostalgica epoca “dell’età dell oro periclea ” oggi “età dell’esistenzialismo sartriano” , che si cristallizza in grumi di materia coagulata, per nuove scultura, e se prima erano gli Dei a influenzare gli uomini, oggi lo sono gli Antieroi. Dr. House il medico poco convenzionale protagonista dell’omonima serie. Antieroe per antonomasia, un uomo fragile, turbato, per niente equilibrato e pure zoppo è comunque un medico, l’eroe di oggi.
Giovanni Negri Brusciano – Università degli Studi di Napoli Federico II

domenica 27 settembre 2015

Più che Madre, Matrigna

Mentre i ” top 20 musei ” italiani rifulgono di internazionalità dopo le nomine di nuovi direttori, il museo pubblico d’arte contemporanea Madre a Napoli brancola ancora nel buio pesto di un provincialismo ottenebrante. Non è un museo libero, dal momento che si paga per entrarvi e addirittura alle serate si entra su invito. Chi mai dovrebbe invitarci a casa nostra? Luogo per cui tutti ci paghiamo le tasse. Non è popolare perché i napoletani del quartiere in cui si trova, non si sentono minimamente coinvolti. Non è nemmeno universale giacché gli artisti che vi ospita non sono universali ma soprattutto mancano di napoletanità. Completamente decontestualizzati. Insomma è un’élite per chi intende l’arte come moda e spettacolarizzazione. Non si fa ricerca, non si produce cultura, né identità, né sviluppo della persona, in pratica è una capriccio. Un museo che non genera una minima curiosità in chi vive il quartiere è una scorza vuota come le palazzine, dormitori, di periferia.

Giovanni Negri Brusciano

L'uso del patrimonio

Il patrimonio storico e artistico è stato introdotto dai costituenti nella Costituzione affinché abbia una funzione civile. Ovvero il patrimonio storico e artistico, non è lo spasso della domenica. In quelle statue, in quelle colonne e in quei palazzi sono racchiusi i “mores maiorum” dei nostri antenati. I valori in cui credevano, il loro modo di sentirsi comunità e le loro speranze di difendere e tramandare tutto ciò. Ora tocca a noi ricordare e tutelare quei significati di civiltà.
La bellezza non può limitare la conoscenza, infatti la Costituzione non dice di "abbellire il patrimonio" ma di "tutelarlo" ovvero ricordarne il significato, in quanto costitutivo dell'identità Nazionale.
Patrimonio storico e artistico sono quindi quei valori civili per cui noi vogliamo crederci Nazione.
Giovanni Negri Brusciano

martedì 22 settembre 2015

Venere che nasce dalla schiuma delle palle di Urano


La nascita di Venere - Alessandro Filipepi detto Sandro Botticielli - 1484 circa - tempera su tela - Uffizi - Firenze -
L'opera è stata commissionata da Lorenzo di Pierfrancesco de Medici, cugino del Magnifico, anche se molti sono a credere che fu un regalo di nozze dello stesso Lorenzo il Magnifico al cugino come augurio di fertilità.

Venere per i Romani, Afrodite per i Greci, Iside per gli Egizi, Astarte per i Fenici.
Secondo la versione " della conchiglia " narrata da Esiodo nella Teogonia, nasce da Urano o meglio dai genitali di Urano recisi, mentre faceva l'amore con Gaia, dal titano Crono e poi gettati in mare. La chizza di schiuma bianca che si formò galleggiò fino all'isola di Cipro ove dalla stessa schiuma emerse Afrodite da cui l'origine del suo nome Aphtos = Schiuma.


Giovanni Negri Brusciano

lunedì 14 settembre 2015

Marc Chagall (1887 - 1985) - Palazzo Reale Milano

La retrospettiva con oltre 220 opere a Palazzo Reale Milano da l’opportunità di vedere non solo le più comuni opere di Chagall ma soprattutto ciò che l’artista è stato, per una corretta visione d’insieme.
In lui ho subito colto la semplicità di chi ‒ è troppo semplice per non essere complicato.
Sembrerebbe un pittore naïf, che disegna ingenuamente, se non fosse stato un profeta che scriveva parabole.

Il bisogno di esprimersi travalica ogni contingenza storica come: due guerre mondiali, la repressione dei totalitarismi e l’appellativo di "arte degenerata" datagli dai nazisti. Ma lui è di più, di più degli impressionisti, dei futuristi, dei cubisti e dei surrealisti, da tutti apprese qualcosa senza mai essere uno di loro fin quando non si fermo per essere semplicemente Chagall.

Russo, ebreo, innamorato di Bella, i suoi soggetti saranno sempre quelli, raccolti in un'amalgama di colori che più di tutto esprimono il sentimento di ciò che porta nel cuore. Perché Chagall dipinge con una mano sul cuore e l’altra sul pennello. La sua opera è l’immagine di ciò che si porta dentro, espressa senza nessuna costrizione, in un posto immaginario, sulla città di Vitebsk, dove nacque, paradiso ideale e inferno terreno.
La caduta dell’angelo 1923-33-47 è la tela summa della sua arte, che per me è molto vicina a Guernica di Picasso 1937. Come in Guernica, il dramma scalfisce tutti non solo chi è rappresentato o il pittore ma anche chi osserva. Uniti in un unico sentimento di sopraffazione.

 Un triste presagio, l’ebreo errante, il Rabbino che scappa con la Torà, la crocifissione come sentimento sacrilego, e un angelo rosso che cade al centro decretano la triste sconfitta per l’umanità, mentre una candela resta accesa, alludendo ad un'ultima fragile speranza.
Perché ‒  " Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche dimostrino e facciano sentire l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia, ad un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, servono sempre di consolazione" ‒ Leopardi.


Giovanni Negri Brusciano 1.01.2015

sabato 5 settembre 2015

Il romanticismo minimale di Davide Pisapia

Sentimento che riempie il vuoto. Albero della vita che racconta il tempo. Cuore gigante con tondini di ferro che come piccoli gesti esprimono l’eredità immateriale della vita.
Ciò che interessa all’artista Davide Pisapia è costruire la forma dei sentimenti, così come la vede nella fantasia della sua mente.

Come per i movimenti d’avanguardia, il suo stile è l’espressione del nostro tempo. Un tempo di crisi, soprattutto economica, che si scontra con le aspettative lavorative e razionali del giovane Davide, di occuparsi dell’azienda familiare di lavorazione del ferro.
La felicità, solo apparente, di una società che produce beni in massa, ha accresciuto, nel giovane artista, esigenze creative: non solo per poter continuare, nonostante la crisi, a produrre lavoro per la sua azienda, ma soprattutto per custodire quanto di umano ancora c’è nel lavoro manuale, sovvertendo le regole che meccanicizzano l’uomo ed uccidono la sua spiritualità, e cercare ciò che  il filosofo, Henri Bergson chiama un “supplemento d’anima”.

Le sue creazioni, sono radiografie di ciò c’è ma che non si vede. Il suo cuore di “L’amore Ramifica” è forse ciò che potremmo immaginare di vedere sotto la pittura della celebre opera “Il bacio di Hayez”. L’amore romantico, così fugace e caduco che però crea legami così forti e saldi che possono perdurare, infedeli al tempo, per tutta la vita.
Non esiste amore sprecato, l’amore ramifica, non perirà nei percorsi finiti del tempo. Un romanticismo in una chiave moderna, geometricamente minimale (perdonatemi l’ossimoro).
Antenne di ferro come quelle di una lumaca, così fragili si proiettano verso l’orizzonte della vita. Sono come le braccia e le gambe, dei superstiti della celebre opera “La zattera della Medusa di Géricault” , sentimenti umani che ramificano forme di speranza e forza di vivere. Per un sottile contrappasso l’opera è speculare al ritratto che Dorian Gray tiene in soffitto sotto chiave ad invecchiare al posto suo, Davide invece espone fiero il suo cuore rigoglioso, come prolungamento del suo vivere emozioni giorno per giorno.
Tasselli tutti uguali che si ripetono, come le quattro note, che si ripetono uguali per tutta la sinfonia “sinfonia N° 5 ”, destino e uomo che si rincorrono tra gli spartiti di Beethoven, anche Davide rincorre il destino ma con l’amore dentro al cuore.


Giovanni Negri Brusciano

mercoledì 22 aprile 2015

La Colonna Traiana in viaggio verso Expo 2015

Colonna Traiana del 113dc Roma
La storia, come ha scritto Marc Bloch, non è la scienza del passato, ma la conoscenza degli uomini nel tempo.
Ed è proprio per la conoscenza, nel tempo e del tempo, che i Senatori Romani già nel 1162, si preoccuparono della Colonna Traiana del 113dc e così decretarono: “Per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata ne abbattuta, dovrà restare così in eterno, finché il mondo duri. Se qualcuno attenterà alla sua integrità sarà condannato a morte…”. Oggi, la Colonna Traiana e l’onore pubblico della Città di Roma, dopo quasi duemila anni, sono intatti. Potrebbe invece preoccuparci l’idea che in futuro, qualcuno possa decidere di spostarla, infondo nel decreto non si vieta il trasporto.
foto di Giovanni Negri.
David, Michelangelo 1501-04 marmo h434cm compresa la base.

Altro esempio di legame tra monumenti, identità civica e identificazione emotiva dei cittadini, si ha con il David di Michelangelo per Firenze. Si narra infatti che i fiorentini, vedendo in esso la raffigurazione simbolica della forza della loro città e del suo primato culturale e intellettuale, decisero di collocare il David in Piazza della Signoria anziché nel Duomo, sua destinazione originaria. Sandro Botticelli, Giuliano da Sangallo, Filippino Lippi e altri maestri del secondo Quattrocento fiorentino accorsero in piazza ad ammirarlo, fra loro anche l’occhio critico e attento di Leonardo Da Vinci. Sebbene esplicito e costituente il legame tra “pietre e popolo” –Montanari. I Bronzi di Riace, il Caravaggio Napoletano, la Tomba del Tuffatore di Paestum, sono solo alcune di quelle opere, che sarebbero dovute mettersi in viaggio per mostrarsi all’ Expo2015 a Milano, come tesori di famiglia.‬‬‬‬ Già la tiritera sulla fragilità fa di per sé ridere. Ma il problema serio e grave è che c’è qualcuno a cui piace vedere il patrimonio storico, appeso come capretti, teneri e succulenti al banco frigo di una qualunque macelleria. Insomma a nessuno interessa vedere quel vivido legame che è stato l’origine della cultura civica, e che fa dell’Italia un paese ricco di tante realtà cittadine, tutte autentiche e vere.
Si preferisce assoggettare l’arte all’intrattenimento, alle emozioni spicce e alle sindromi di Stendhal sfuse.
Q.de Quincy, archeologo famoso e uomo importante della Rivoluzione Francese, nel 1796 sostenne che: “strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state create era un crimine contro la memoria storica. Un Raffaello uscito dal suo contesto non esprime niente, non è una reliquia( un pezzo della Santa Croce) che può comunicare “le virtù legate all’insieme”. Esporre all’Expo alcune opere, decontestualizzandole ma solo per la loro forza estetizzante, non edificherà nell’osservatore alcuna prospettiva di ricchezza intellettuale, ricerca storica o presa di coscienza ma gli farà credere che l’opera è in quanto tale e che quindi potrebbe comprare, come un vestito in vetrina, magari al mercato nero, per esporre nel proprio salone di casa. Così da componente identitaria ed emotiva di un’intera comunità a capriccio dei ricchi. L’opera perderà il suo valore teleologico, storico e culturale assumendo quello di miserabile orpello di ricchezza, inutile contenitore di polvere, alla berlina di altrettante menti impolverate.
 Giovanni Negri Brusciano 26Aprile2015

lunedì 20 aprile 2015

Pompei Ante Litteram #kultura

Io non ho viaggiato tanto, però penso spesso.
Quando uscii dall’aeroporto di Philadelphia mi sembrava di essere in un altro mondo, e in effetti lo ero. Tutto era fantastico come in un film, anch’io sono cresciuto con i film americani, e mi piaceva come può essere piacevole fingere di essere l’attore del tuo film preferito.
Vedendo oggi gli scavi di Pompei ho capito che ogni uomo dovrebbe visitare quella città. E non perché ogni viaggio, ogni posto, ti lascia un’emozione, aizzandovi con una becera retorica e facendo finta di non sapere che le emozioni sono personali quindi indescrivibili e incomprensibili per altri, recitando la parte della persona sensibile e obbligandovi ad emozionarvi.
Pompei non è emozioni è storia, è conoscenza ma soprattutto è percezione di vita.
Se c’è una cosa che subito impari nella vita è che non puoi fermare il tempo, che tutto scorre, tutto cambia, e sebbene in Italia abbiamo palazzi, monumenti in cui il tempo si sembra fermato niente ci riesce per davvero. Fatta eccezione per Pompei dove il tempo finisce. Tutto è stato ibernato e ritornato alla luce, e non si tratta di un palazzo, di una stanza, o di una lettera d’amore mai letta ma di un’intera città.
E così ti ritrovi a camminare in un luogo anacronistico, proprio tu, così soggetto ai cambiamenti, obbligato alla contemporaneità ed al presente, tu che sai di avere una mentre senza limiti imprigionata un corpo sempre troppo terreno, tu che cerchi la felicità e il senso della vita, capisci a Pompei che se vuoi puoi "fermare il tempo", quel temopo che non ti allunga la vita ma che te la riempie.

sabato 4 aprile 2015

Sileno o Dioniso ebbro ? di Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto


La stampa deriva dalla copia di una lastra d'argento che costituiva il fondo di una coppa, incisa da Annibale Carracci intorno al 1597-1599 per il cardinale Odoardo Farnese.i didascalia

 Benché l’iconografia venga spesso associata al Sileno ebbro della “Tazza Farnese” di Annibale Carracci. Se questo di Ribera sia Sileno o Dioniso non si sa con precisione, che sia ebbro questo è certo. Personalmente penso che il pingue e impudico uomo che domina la scena è Dioniso.
In un crudo realismo, solo la presenza del vino rende armonico il convivium, benché il luogo e le facce dei partecipanti non siano raccomandabili.
Sileno ebbro, 1626, olio su tela, Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto, Museo Nazionale di Capodimonte Napoli
Dioniso, dio del vino e della perdizione, portatore di gioia e di sorrisi, è raffigurato nell’atto di allungare il braccio per farsi riempiere il calice da Sileno. Quest’ultimo, divinità minore dei boschi, figlio del dio Pan, educatore di Dioniso e possessore del dono della divinazione, cioè la conoscenza di ciò che accade in futuro.
Sileno era solito accompagnare Dioniso ai banchetti ai quali si recava sul dorso si un’asina, presente anch’essa, in alto a sinistra, alquanto alticcia, con ai piedi un giovinetto dalla fraintendibile natura.
Nell’atto di cingere la testa a Dioniso con una corona di tralci di vite c’è Pan, dio greco dei pastori e delle campagne, monstrum mezzo uomo mezzo caprone, con barba e corna caprine, indossa la nebis, pelle di cerbiatto ed ai suoi piedi il bastone ricurvo, simbolo dei pastori, di fianco una tartaruga, simbolo di pigrizia. Indicherebbe l’ozio degli ebbri, il vivere senza affanni.
Affacciato di profilo, in alto a destra, a scorgere l’abisso, c’è Apollo, l’altra faccia della medaglia.
Le numerose antitesi tra: luce e oscurità, uomo e animale, apollineo e dionisiaco, ragione e impeto sono il senso dell’allegoria.
Lo sguardo nell’abisso di Apollo, dio delle virtù, e dell’armonia  scorge la sregolatezza dell’ebbrezza dionisiaca.
In tale atto vi è comunque la ragionevole conoscenza dell’altra anima dell’esistenza irrequieta e intuitiva.
« E se tu guarderai a lungo in un abisso anche l’abisso vorrà guardare dentro di te » - Nietzsche.
Vedere l’altro da se e dunque se stessi.

giovedì 2 aprile 2015

Antonio Berté (1936-2009)

Ho sempre pensato che l’Urlo di Munch fosse complementare ad un’altra opera, questa di Antonio Berte’.
I soggetti principali hanno lo stesso significato, rappresentati nello stesso istante della loro vita, frutto di una stessa poetica esistenziale. (visti di viso nell’Urlo e di spalle per Berte’).

Perciò ritengo che Berte’ sia prima di tutto un maestro Espressionista, laddove nelle sue opere la realtà è presente e riconoscibile, non però come ci appare, bensì come viene letta dall’artista.
La natura è solo un’imitazione del sentimento individuale.
Con la stessa irruenza e vibrante tumulto dell’Urlo di Munch, rimbomba dentro di noi l’eco profonda del silenzio dell’opera di Berte’.
Lo spettacolo inscenato dal napoletano Berte’ è calibrato sulla nostro esistenza, sul nostro vuoto, quello che vediamo è il nostro personale disagio.
Come in uno specchio ci siamo scorti, abbiamo visto nell’omino il nostro incedere di spalle,in un’esistenza che ci ha dato forfait, impenetrabile come il paese lontano anch’esso di spalle, per nulla accogliente.
Disillusi, camminiamo…il destino è irrimediabile come ne è incomprensibile il senso, ad ognuno è garantito solo il rimorso e il rimpianto per un insoddisfazione cronica che trascorre la nostra vita.
Una strana empatia tra noi e l’opera ci rimanda non al classico “cogito ergo sum” Cartesiano bensì “cogito ergo est” penso dunque qualcosa è, si ma cosa?
E chissà cos’è, forse un segreto che solo l’artista conosce, a noi è dato solo interrogarci, ripetendo tra le labbra versi ermetici di Montale:
<< ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano con il mio segreto >>.

mercoledì 1 aprile 2015

Vivere al massimo 1luglio2014 anteKultura

L’ uomo trascorre il tempo[la vita] quantificando le sue esperienze.
Conta i soldi che aveva e quelli che ha guadagnato per capire se è diventato più ricco,
quantifica la felicità di ogni momento sulla base di esperienze passate per capire se è stato più felice, quantifica le sue emozioni per capire quali sono vere e quali invece credeva solo che fossero.
Insomma la vita lo appagherà sempre perché il futuro è per lui un’incognita che valuterà in base al suo passato.
Pochi uomini invece hanno una ulteriore e una chiara visione d’insieme, essi non commettono l’errore di valutare la propria esperienza sui propri trascorsi, ma suoi trascorsi di tutta la loro generazione, e confrontano i loro momenti non su vecchie loro esperienze ma su puri concetti, quanto questo momento vale la percezione d’eternità? quanto questa gioia vale tutto il male che percepisco? quanto questi soldi, questa felicità, quest’emozione, valgono ciò che c'è di più ricco al mondo? ovvero quanto io sono grande rispetto al vuoto, quanto io non sono già morte?
Insomma questo per me è vivere al mas
simo.
Giovanni Negri

Cosa unisce Pirandello - Marx e Warhol ? Facebook!



#Kultura  3.07.09
Discorso: Esame di stato licenza superiore.
Cosa unisce Pirandello - Marx e Warhol?
Facebook.
Come al solito non sono mai le virtù ma sempre i vizi a dirci chi è di volta in volta l’uomo. E per questo motivo, oggi voglio parlare di quelle tendenze o modalità comportamentali per le quali suona efficace ma impropria la definizione di “nuovi vizi”. A differenza infatti dei vizi capitali che segnalano una deviazione o una caratteristica della personalità, i nuovi vizi segnalano il dissolvimento di quest’ultima, che tra l’altro non è neppure avvertito, poiché investono indiscriminatamente tutti.
 I nuovi vizi infatti non sono personali ma tendenze collettive a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena esclusione sociale.

 I vizi che prenderò in esame sono: il consumismo e il conformismo. La voluttà dello shopping e la dipendenza dalla merce.

Emblema contemporaneo del consumismo e del conformismo è il nuovissimo sito di social network Facebook. Sito aperto a tutti, nato nel 2004 come canale comunicativo tra studenti e personale di un determinato college americano. Giunto oltre oceano è divenuto il sito più cliccato degli ultimi anni, tanto da essere nominato come la prima cosa più ‘in’ tra gli studenti universitari allo stesso posto della birra e del sesso.

Pensate che il numero degli utenti ha raggiunto i 200milioni in tutto il mondo.(su 7miliardi circa) Quindi, se lo scopo principale era far mantenere i rapporti tra studenti universitari e liceali adesso è divenuta la rete sociale che abbraccia trasversalmente tutti gli utenti di internet.

 Due sono le applicazioni che intendo prendere principalmente in considerazione di questo sito :

LA REGISTRAZIONE DELL’UTENTE
I GRUPPI.

LA REGISTRAZIONE DELL’UTENTE: tutti gli utenti possono iscriversi liberamente pubblicando i propri dati e le proprie foto. Quindi analizzando bene possiamo dire che tutti per un attimo hanno la possibilità di crearsi un ulteriore identità, molti non rinunciano a quella che hanno, altri invece sfruttano l’occasione per crearsene una secondaria . Lo stesso processo che avviene nella novella di Pirandello :” Il fu mattia pascal”

Grazie al nuovo network si crea una situazione analoga(ovviamente in tempi e con modalità diversi) a Mattia Pascal.
 Si fugge da quella che è la realtà per indossare una maschera. Le cause di questa evasione sono principalmente: la non accettazione di quello che si Crede di essere, oppure la repressione di quelle che sono le dicerie sul proprio conto, (altra romanzo di Pirandello: “Uno nessuno e centomila”).

Quindi la creazione di una maschera omologata, di un uomo diverso, di un uomo nuovo esteticamente e psicologicamente, contribuisce a farci accettare giorno per giorno da questi nuovi compagni, attraverso le foto (nostre o di altri uomini) e soprattutto attraverso la comunicazione (chat) tutto ben celato dietro il nascondiglio, il muro tra la nostra vita prima di accendere il pc e quella dopo con il pc acceso.

Saremo felci di comunicare anche se così non facciamo, poiché sempre identico sarà il mondo, sempre più conformista, sempre più bugiardo, così come sempre più identiche saranno le parole messe a disposizione per descriverlo.

 Il risultato non sarà altro che una sorta di comunicazione tautologica dove chi ascolta finisce per ascoltare le stesse cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, l’altro Profilo sarà lo stesso profilo nostro e le foto gli atteggiamenti, ogni più piccolo vezzo sarà simile…forse quest’ illusione d’identità ci farà anche divertire, addirittura stare bene ma tolti gli occhi dallo schermo ritorneremo ad essere quello che vogliamo celare : il dissidio vita/forma. Con la stessa inquietudine ed incertezza del protagonista della novella pirandelliana (La carriola) quando leggendo sulla sua porta AVV. capisce che così la società lo ha voluto catalogare, vedremo i nostri amici nuovi, le nostre nuove foto il nostro nuovo profilo, e ci renderemo conto che non abbiamo fatto altro che creare un altro uno un altro nessuno un altro tra i centomila.

I GRUPPI: i gruppi sono molto conosciuti dal popolo di facebook e non sono altro che delle pagine interne al sito dove ognuno può creare una discussione, porre una domanda, chiedere informazioni, condividere un esperienza, oppure cercare amici lontani. ESEMPIO esistono gruppi intitolati: “Per tutti quelli che sono stati nel villaggio marina a marina di camerata nel 2000” , oppure “Per tutti quelli sono di Brusciano” .

Principalmente i dibattiti erano pure costruttivi e davano la possibilità di conoscere e di produrre nuove idee, poi però le cose sono iniziate a degenerare adesso si vedono sempre più gruppi demenziali, dove i ragazzi per essere riconosciuti pongono come argomento luoghi comuni: “per tutti quelli che indossano le Hogan “ e la cosa più indignante è che sotto questi titoli ci sono anche numerosissimi iscritti, molti superano i 1000 per non parlare poi dei gruppi di moda, dove sono iscritti magari 16 17 mila persone sotto la foto di una cintura griffata. Ecco il mondo diventa sempre più uguale e la cosa bella è che siamo noi a catalogarci rendo ancora di più l’idea di come e di cosa si deve fare per essere simili. Abbiamo tutti lo stessa macchina perché quella precedente anche se andava ancora bene era il caso di sostituirla perché socialmente inadatta, ciò che è materialmente utilizzabile è socialmente inutilizzabile. Perché ormai in noi si è instaurata una mentalità talmente nichilista dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata a gli oggetti che possiede. Già Marx aveva identificato nel capitalismo una tendenza al consumismo che aveva chiamato Feticismo della merce. Dove le merci da pure e semplici cose, prodotto del lavoro umano assurgono al ruolo di rapporto sociale. Con ciò aumenta pure il valore effettivo che per Marx dovrebbe essere basato solo su quello che è il lavoro costituito per produrlo.

Secondo me è lo stesso feticismo delle merci introduce quella che è l’ideologia di Andy Warhol, la Pop Art : l’arte pop intesa come popolare cioè non del popolo o per il popolo ma un arte di massa quindi prodotta in seria senza un volto da poter essere capita da tutti , questo siamo anche noi oggi, non siamo più un popolo ma una massa cioè prodotti in serie.

Come la massa non abbiamo volto e così possiamo essere accettati da un maggior numero di persone.

#kultura: Pietro Guccione i Movimenti del mare, 2004-05


Forse la profondità è dove finisce il colore. 
Piero Guccione, il Galileo contemporaneo che punta il cannocchiale verso l’orizzonte per un fatale aspetto della sua ossessione.
Ovvero voler catturare, sulla tela, la forma dell’infinito.
E lo fa rincorrendolo dove si mostra più palesemente, cioè sul mare.
Pennellata dopo pennellata fino al centro della tela dove si ferma solo dopo esserne riuscito a toccarne un frammento con il pennello, appena prima di sprofondare sul cielo.
L’ ossessione di Guccione diventa la nostra persuasione di osservatori. Attenti cerchiamo il senso, la profondità, sentiamo la grandezza, il vento, l’ossigeno, vorremmo allungarci quasi un braccio. Ma scoraggiati ritorniamo indietro, in effetti il quadro è poco definito, è scarno e diafano, eppure qualcosa di immenso c’è.
L’uomo come la tela, percepisce, lambisce l’infinito ma non lo sa raccontare ne mostrare.
Chissà qual è il punto preciso, di ognuno di noi, dove maggiormente ci si riesce a spingere, prima della risacca, prima del ritorno alla realtà del finito.

Giovanni Negri

martedì 31 marzo 2015

#kultura by a.K. : Sensazioni 6aprile2010

Quello stato di incompletezza, che ci uccide.
che non ci lascia liberi di muoverci, di agire, di pensare, di dormire.

Quello stato di paura,
paura che come un estasi inebria la mente e ci rende vittime di noi stessi
vivendo all'ombra del supplizio, di cui Tantalo patì.
 Quello stato di affanno, di mancanza di fiato, talmente acuta che abbiam paura di continuare a respirare,
per non peggiorare,
vivere nell’ansia tra un respiro e l’altro.
Quello stato d'essere,
esserci ma non essere presenti o essere presenti ma non riuscire a sentirsi.
Quello stato di mancanza che ci procura mancamenti
quello stato di vuoto che ci svuota, ma ci gonfia di nulla dentro.
Quello stato di acutezza pungente che intensamente si assottiglia e come un fendente nel cervello ci trafigge,
come un dolore intenso, un mal di testa perenne, un freddo lungo la schiena, gelido pungente.
Quello stato di inquietudine che ci agita ci fa delirare
ci da energia, energia deviata, ma poi ci appaga ci calma quasi ci seda, gli arti e la mente,
ci fa continuare
e ci rendiamo conto che la vita è un non vivere
o forse vivere vuol dire troppo
o forse troppo poco,
quel troppo o troppo poco con cui ognuno gioisce e va avanti
in questo stato, in questa vita,
che ci vuole tutti in piedi e poi sdraiati.
Ci ha già uccisi.
                                                                                                                                        gn

sabato 28 marzo 2015

#kultura: Roberto Carignani, Napoli (1894-1988)

Roberto Carignani, Napoli (1894-1988)
Se vi capita di chiedere di lui per Napoli troverete sicuramente qualche anziano che vi parlerà di quando incrociava i suoi occhi e l’aspetto canuto concentrato come nessun altro a scrutare l’orizzonte dell’ippodromo di Agnano dove solitamente trascorreva le giornate a giocare cavalli.
Con i quadri non si mangia, ma è la fortuna a far dolce la vita.
Roberto Carignani è un artista minore di quella che fu la scuola di Posillipo Napoletana. Nato nel 1894 fu allievo dell’accademia delle belle arti di Napoli. Vissuto fino all’ultimo in piccolo basso a Spaccanapoli perché sebbene come detto con “l’arte non si mangia” Carignani l’arte la respirava, come i colori e i pigmenti colorati che respirava sul tavolo dove pranzava o sul letto dove dormiva nella sua stanza laboratorio.
Unico pittore ad esporre in vita nel 1959 nel foyer del teatro San Carlo di Napoli.
Seppe raccontare con calibrato romanticismo la vita a Napoli, dei napoletani e del loro destino, in un’ alba di pescatori, dove il panorama di luci colorate si unisce alla fatale ricchezza del cupo mare e alla fatica composta dei pescatori che diventano evento di straordinaria ed eccezionale bellezza.
Sotto le mille sfumature di un cielo, principio di giornata, con al centro la luna che è cuore pulsante di chiunque osserva.

# kultura : Laoconte e i suoi figli

La statua fu riscoperta nel 1506 a Roma, allo scavo partecipò anche Michelangelo in persona.

L’opera si fa risalire al 40 a.c. ed è costodita nei Musei Vaticani.
La storia narra di Laocoonte, sacerdote Troiano, che scagliò una lancia contro il Cavallo di Troia per dissuadere i suoi concittadini dall’accettare il “temibile dono” .
Insomma un sacerdote che avrebbe cambiato la storia e il fato e per questo punito dagli Dei, avversi, a perire con i propri due figli Antifane e Timbreo sotto le spire di due serpenti Porcete e Caribea.
La storia è narrata anche da Virgilio nel II libro dell’ Eneide.
La statua marmorea invece viene introdotta a noi dagli scritti di Plinio il vecchio che la vide a casa di Tito, e ne attribuì la paternità a tre scultori della scuola di Rodi Agesandro, Polidoro, Atanodoro.
La potenza iconica dell’immagine ha incuriosito molti studiosi da chiedersi: ma Laocoonte grida oppure no? il suo corpo esprime morte o anche una passione diversa? oggi Laocoonte è vivo o morto?
La fisionomia del pathos non è solo di dolore.

Aretino scrittore di fine ‘400 in un dialogo tra prostitute introduce la faccia del Laocoonte per descrivere le smorfie del volto di un frate peccaminoso nel momento dell’amplesso.
Per me invece, Laocoonte non grida affatto.

Lui che voleva ribellarsi al destino urlando la verità contro il cavallo, accoglie la pena della sua irriverenza agli Dei con mistica rassegnazione.

Come un martire che muore per un sentimento più aulico e giusto, in questo caso per la verità inascoltata.
La pena non sono tanto i serpenti quanto l’onta di non essere creduto.

Il suo volto sottace la verità inascoltata. Il logos perde tutto il suo valore.

Così i due suoi figli increduli osservano il volto del padre per udir parola di salvezza che non arriverà mai. Non ci sono grida per chi ha già urlato e ormai capito verso quale sorte vanno i suoi fratelli troiani.

venerdì 20 marzo 2015

#kultura: Banksy a Napoli

Anni addietro un inserto immobiliare recitava: ” Vendesi opera di Banksy con casa attaccata “. Del più conosciuto writer sulla faccia della terra non ci è dato conoscerne la faccia.
Una forma di denuncia alla società delle apparenze? o l’ennesima conseguenza della totale sottomissione alle rigorose leggi della notorietà?
Di Banksy, come per la Gioconda, non sapremo mai chi realmente sono.
Ma possiamo immaginare cosa sarebbero stati se l’avessimo saputo,
ebbene ben poca cosa come il loro messaggio.

Del segreto che custodisce questi personaggi, ci siamo costruiti un personale feticcio di evasioni, che con il passare del tempo abbiamo continuato a nutrire di assenza fino a consolidarne in ciò tutta la loro essenza.
Banksy, un misto tra Batman e Gesù, che di notte posa, come un fascio di luce, il suo stencil sui muri della città denunciando solo ciò che tutti denunciano.
È popolare. Un predicatore moralista, troppo politically correct per essere un writer. Sine ira et studio, senza ira ne pregiudizi.
Un conformista qualunque, tutti lo amano, e ne apprezzano le opere perché non sanno qual è il suo volto.

Il suo oscillare tra notorietà e anonimato però si è bloccato a Napoli.
Dove si raggiunge il paradosso: il suo primo stencil unico autentico in città è stato coperto da un graffitaro, lasciando illibato solo il secondo stencil.
Illibato si ma poco autentico!
Cioè, non si sa se è suo o di un anonimo, ancor più anonimo di lui.
Che grattacapo per Banksy!
Che senso avrebbe questa madonna con pistola in piazza Gerolomini? Una troppo comune mammasantissima con pistola ?
Ma no, a me sembra più Maradona, sempre avvezzo ai palleggi di testa. Un Maradona che in piazza Gerolamini si concede un passaggio di testa, al volo con gli altri scugnizzi.
Eallora qual è la denuncia verso il mondo capitalistico? Chissà, per capirlo  servirebbe un pensatore comune, come per capire tutte le sue opere.
Giovanni Negri